“Bicchieri, piatti e posate monouso, i guanti, le mascherine. Il Covid-19 ci ha spaventato e ci ha indotto a consumare dal 250 al 300 per cento di plastica in più, sempre più spesso dispersa nell’ambiente”. A raccontarlo è Antonio Ragusa, direttore dell’Unità Operativa Complessa di Ostetricia e Ginecologia dell’ospedale Fatebenefratelli Isola Tiberina di Roma, autore del libro “Nati con la camicia… di plastica” (Aboca Edizioni, giugno 2021) e del primo studio al mondo che è riuscito a individuare microplastiche nella placenta umana. La “conversione ecologica” di Antonio Ragusa è iniziata nel 2019 sulla spiaggia incontaminata di Piscinas, in Sardegna dove, mischiata alla sabbia fine, ha scovato una miriade di minuscoli pezzettini di plastica. Di lì una ricerca a ritroso, verso l’origine della vita, per andare a cercare a scoprire sino a che punto la plastica contamini le nostre esistenze. “La plastica non è cattiva, è uno strumento neutro. Può salvare vite, ha innegabili vantaggi. Ma la quantità di plastica prodotta nel mondo nell’ultimo secolo è cresciuta vertiginosamente. Si è passati da un volume annuo di circa 2 milioni di tonnellate negli anni Cinquanta ai 368 milioni di tonnellate prodotte nel 2019. Gli scienziati hanno calcolato che, da quando è iniziata la produzione di massa, sono stati creati in tutto il mondo 7,8 bilioni di tonnellate di plastica vergine”. Questa, con il tempo e i fenomeni atmosferici si frammenta in miliardi di piccole particelle con diametro inferiore ai 5 millimetri.