Torna Verdi al teatro La Scala di Milano, con un’opera imponente.
La storia de La forza del destino è l’adattamento di un’opera teatrale spagnola, Don Alvaro o La fuerza del sino, scritta nel 1835 da Ángel de Saavedra y Ramírez de Baquedano, meglio noto come Duca di Rivas (e infatti, prima di assumere la sua versione definitiva milanese, l’opera verdiana arrivò per la prima volta a Roma nel 1863 col titolo Don Alvaro). Proprio in Spagna inizia la vicenda: nel primo atto due innamorati – donna Leonora di Vargas (soprano), figlia del marchese di Calatrava, e don Alvaro (tenore), un indio discendente dalla famiglia reale Inca – meditano la fuga per coronare il sogno di sposarsi, ma l’arrivo del marchese (basso) sembra sventare i loro piani, anche se il giovane, dichiarandosi colpevole e buttando a terra una pistola, uccide accidentalmente l’uomo. I due fuggono nella notte.
Il secondo atto è ambientato diciotto mesi dopo: don Carlo (baritono), fratello di Leonora, è alla ricerca dei due amanti per vendicarsi. Giunge così in una taverna a Hornanchuelos, affollata di vari personaggi tra cui la zingara Preziosilla (mezzosoprano) e la stessa Leonora travestita da uomo: dalle parole di lui la ragazza scopre che il padre è ancora vivo e, dopo essersi recata al Monastero della Vergine degli Angeli, svela la propria identità e chiede perdono al padre guardiano (basso), confermando poi la decisione di vivere come un’eremita in una grotta.
Nel terzo atto la vicenda si sposta, qualche anno dopo, a Velletri, in Italia: mentre infuria la guerra tra spagnoli e imperiali, don Alvaro, a capo dei granatieri iberici, canta le sue sventure e spera di morire in campo, affidandosi alla misericordia di Leonora che crede morta; assiste però un soldato ferito, che altri non è che don Carlo, il quale a sua volta lo assiste il giorno dopo un terribile ferimento. Alvaro gli affida un plico sigillato da bruciare dopo la sua morte, ma Carlo mosso da curiosità lo apre scoprendo che contiene un ritratto della sorella. Lo sfida a duello, quindi, ma i due vengono interrotti e Alvaro si rifugia in un monastero.
Passano più di cinque anni e, nel quarto atto, al Monastero degli Angeli lo sgarbato frate Melitone (baritono) sostituisce padre Raffaele, il nome scelto da don Alvaro una volta fattosi frate. Lo stesso Raffaele è convocato da don Carlo, il quale ha scoperto dove si nasconde e lo vuole sfidare nuovamente a duello: inizialmente Alvaro rifiuta ma alla fine è pronto ad affrontare il proprio destino. Nel mentre nella sua grotta Leonora si dichiara ancora innamorata di don Alvaro e poco dopo sente un trambusto: è il suo amato che cerca un confessore, avendo ferito a morte don Carlo; la donna si precipita ma viene pugnalata dal fratello ancora acciecato dalla sete di vendetta. Leonora spira tra le braccia di don Alvaro, augurandosi di ritrovarlo in cielo, mentre lui, rimasto solo sulla Terra, maledice nuovamente il suo destino (nella prima versione dell’opera, invece, si suicidava a sua volta gettandosi da una rupe).
Leggende apotropaiche( da Macbeth a La forza del Destino)
Come spesso accade per le opere liriche, anche La forza del destino è ammantata di leggende e, a volte, di vere e proprie superstizioni. Nonostante il grande successo riscosso nei decenni, quest’opera in particolare è considerata portatrice di sciagura, tanto che alcuni non osano pronunciarne il titolo, ricorrendo a perifrasi come La potenza del fato o addirittura appellandola L’Innominabile. Ad accendere la nome, pare fosse stato un verso pronunciato da Alvaro nel recitativo prima dell’aria O tu che in seno agli angeli, che in origine recitava Fallì l’impresa” ma che fu poi rivisto in “Fu vana impresa”, perché in ambito teatrale anche solo far riferimento al fallimento era considerata un’azione porta-sfortuna.
Perdonatemi il gioco di parole, ma Verdi è sempre-verde!
(Fonti: Wired, Teatroallascala.org)