La Corte Penale Internazionale ha emesso un mandato d’arresto contro il premier israeliano Benjamin Netanyahu e l’ex ministro della Difesa del suo governo, Yoav Gallant. L’accusa è di crimini contro l’umanità e di crimini di guerra per i fatti avvenuti nella Striscia di Gaza dall’8 ottobre 2023, all’indomani della strage del 7 ottobre perpetrata da Hamas, al maggio 2024, quando il mandato di arresto è stato deliberato dal Tribunale dell’Aja.
Una cosa sola è sicura: come ha sottolineato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International, Benjamin Netanyahu è da ieri «ufficialmente un ricercato». Ma come il primo ministro più longevo di Israele, l’uomo che è riuscito nell’impresa di restare alla guida del Paese dopo la strage peggiore della Storia dello Stato ebraico, intenda ora giocare la sua partita, al momento non è chiaro. «Nessuna scandalosa decisione anti-israeliana ci impedirà, e mi impedirà, di continuare a difendere il nostro Paese», ha detto ieri sera il premier in un messaggio alla nazione.
In un primo momento, il suo ufficio aveva parlato di «moderno processo Dreyfus» (citando il caso dell’ufficiale francese accusato di tradimento)denunciandone la vena «antisemita». Concetti simili sono arrivati dal presidente della Repubblica, Isaac Herzog, ma anche dal capo dell’opposizione Yair Golan. Opposti, naturalmente, i toni dall’altra parte, con l’Autorità nazionale palestinese del presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) che parla di «un segno di speranza e di fiducia nel diritto internazionale e nelle sue istituzioni», mentre Hamas in una nota invita il tribunale ad «allargare la ricerca di responsabilità a tutti i leader criminali dell’occupazione».
La decisione della Corte dell’Aja arriva in un momento difficile per Netanyahu: due dei suoi più stretti collaboratori, da giorni agli arresti domiciliari, sono stati formalmente accusati di aver compiuto “azioni dannose per lo Stato”, un capo d’imputazione collegato allo spionaggio che, se confermato, potrebbe portarli in prigione per anni. Seguendo gli inquirenti, avrebbero manipolato informazioni riservate e le avrebbero passate alla stampa nel tentativo di rafforzare la visione del premier, contrario al cessate il fuoco con Hamas: fatto che ha provocato rabbia profonda nelle famiglie dei 97 ostaggi ancora a Gaza e in quella parte dell’opinione pubblica che le sostiene.
Il 2 dicembre Netanyahu sarà chiamato a deporre davanti ai giudici nei due casi per corruzione per i quali è indagato da anni. Per mesi il primo ministro è riuscito a posticipare l’appuntamento, giustificando l’assenza con la necessità di guidare il Paese durante la guerra. Ma ora la vicenda che da anni pesa sulla sua testa è tornata a chiedere il conto.
E se venisse in Italia?
A sottoscrivere lo Statuto di Roma, quello fondativo della Corte Penale Internazionale, sono soltanto 123 Stati. Tra questi, mancano – insieme a molti altri – Israele stesso, gli Stati Uniti e la Cina. Il che significa che semmai Netanyahu dovesse visitarli, non sarebbero tenuti a fare nulla né sarebbero perseguibili in qualche modo per il mancato arresto. Ma cosa accadrebbe se, ad esempio, il premier israeliano facesse ingresso in un paese come l’Italia, che invece ha sottoscritto lo Statuto di Roma?
Anche in questo caso, ovvero se uno stato firmatario come l’Italia, nonostante il mandato del Tribunale dell’Aja, decidesse di non arrestare Netanyahu, la Corte Penale Internazionale non avrebbe nessuno strumento per punire chi disattende l’ordine. In breve, deve essere il governo di quello stato a decidere, in ultima sede, se applicare o meno il mandato. I Paesi Bassi, ad esempio, hanno fatto sapere che nel caso in cui il primo ministro israeliano superasse i loro confini, lo arresterebbero subito.
Il ministro della difesa Crosetto: «Corte penale internazionale non doveva intervenire, ma se Netanyahu e Gallant vengono in Italia dovremmo arrestarli».
(Fonti: La Repubblica, Il Messaggero)