“Ha messo tutto il suo cuore in una campagna di cui essere fiera” sono le parole di “consolazione” del presidente uscente Joe Biden verso la vicepresidente Kamala Harris, sconfitta in queste elezioni presidenziali contro il tycoon Donald Trump.
Ma perché la Harris ha perso?
Innanzi tutto, è stata una candidata “d’emergenza” per prendere il posto di Joe Biden, colpito da una evidente senilità e inabile a sostenere la carica massima in USA. In secondo luogo, di democratico il partito ha dato esempio di contraddizione, essendo la Harris candidata senza elezioni primarie, cosa che hanno fatto regolarmente i Repubblicani. Si è puntato sul retaggio etnico, avendo genitori non Wasp(White american…), quindi puntando sul meltin’ pot(calderone di mescolanze) come con Barak Hussein Obama; e ovviamente, come con Hilary Clinton, sul genere. La speranza era che una donna facesse breccia, che la sua figura, immacolata e pura, soprattutto femminile, diventasse un precedente nuovo nella lunga storia di presidenti maschi. Ma la Harris è stata “tradita” da se stessa, nonostante l’imponente fiume di denaro, ben un miliardo di dollari, raccolto nella sua campagna elettorale in tempi record.
Così come in Italia, si è puntato sull’antitrumpismo, sull’antifascismo, sull’anti…linguaggio sterile di chi non ha argomenti validi da esporre in favore della propria posizione. E’ grazie all'”Anti” che la sinistra di Shlein & co. in Italia macina sconfitte a catena.
Ma la Harris non é in Italia. E’ in America, questi Stati Uniti, baluardo della democrazia, che si sono date le danze. E ha vinto Trump, un uomo universalmente simpatico e odiato al tempo stesso, indagato per tanti brogli e un quasi golpe che anni fa ha tenuto il Campidoglio sotto assedio da una moltitudine di “jerks” suoi sostenitori.
Eppure ce l’ha fatta, Trump. Qualcuno potrebbe dire che ci sia la mano, o meglio, il digitus Dei, il dito di Dio, che ha fatto persino deviare quel proiettile che lo ha sfiorato di pochi millimetri da una morte certa in un attentato con tanti misteri, dandogli una veste di “blessed”, benedetto, scelto dalla divinità per perseguire la propria missione.
E poi c’è il lato mediatico. Avere dalla propria parte cantanti “di massa” come Taylor Swift o Lady Gaga non ha assicurato la vittoria, persino l’aiuto e il sostegno pseudo-familiare dell’opinionista per eccellenza, quella Oprah Winfrey che da decenni muove il gradimento di milioni di americani con il suo fare così falsamente sincero non le è servito a conquistare lo studio ovale.
Personalmente ho ritenuto entrambi i candidati non idonei, ma dovendo scegliere, avevo puntato su Trump, vedendo in Kamala un “cul de sac” dei Democratici speranzosi nel candidato vicepresidente, immemori della sconfitta di anni addietro con il vice di Bill Clinton, Al Gore.
La Harris, cercando di cadere in piedi, rilascia dichiarazioni da cliché, auspicando future glorie e auto-eleggendosi come difensore di democrazia e speranza di miglioramenti improbabili.
Resa da chiedersi se la rivedremo alle prossime elezioni presidenziali. Probabilmente no. I Democratici per il momento si leccano le ferite e faranno ovviamente strenua opposizione, ma dovranno abbassare la testa a Gennaio quando Trump si insedierà giurando sulla Bibbia.
Scritto di propria mano, senza aiuto di intelligenza artificiale, tenendo conto delle notizie riportate dalle vari testate giornalistiche nazionali ed estere.