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L’Europa( o meglio, alcune nazioni UE) contro Maduro

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Scontri tra manifestanti e polizia(in foto)

Francia Spagna Portogallo Polonia Germania Paesi Bassi e Italia hanno adottato la seguente dichiarazione sulla attuale situazione(grave) in Venezuela dopo le discutibili elezioni che hanno visto risalire Maduro: “Esprimiamo forte preoccupazione per la situazione in Venezuela a seguito delle elezioni presidenziali di domenica scorsa. Chiediamo alle autorità venezuelane di pubblicare tempestivamente tutti i registri di voto per garantire piena trasparenza e integrità del processo elettorale”.

“L’opposizione – proseguono l’Italia e gli altri 6 Paesi dell’UE – indica di aver raccolto e pubblicato oltre l’80% dei registri di voto prodotti in ogni seggio elettorale. Questa verifica è essenziale per riconoscere la volontà del popolo venezuelano. I diritti di tutti i venezuelani, in particolare dei leader politici, devono essere rispettati durante questo processo. Condanniamo fermamente qualsiasi arresto o minaccia nei loro confronti. La volontà del popolo venezuelano, così come il suo diritto a protestare e a riunirsi pacificamente devono essere rispettati. Continueremo a seguire da vicino la situazione insieme ai nostri partner e a sostenere l’appello alla democrazia e alla pace del popolo venezuelano”. 

Decine di migliaia di sostenitori dell’opposizione venezuelana, guidati dalla loro leader, manifestano continuamente a Caracas per contestare la rielezione alla carica di presidente di Nicolas Maduro, i cui sostenitori intendevano “celebrare la vittoria” in un Paese sotto forte pressione internazionale. La leader dell’opposizione Maria Corina Machado(in foto), che dalle elezioni del 28 luglio vive nascosta e teme(giustamente) per la sua vita, è apparsa a mezzogiorno su un camion con la scritta “Il Venezuela ha vinto” e ha gridato alla folla “non siamo mai stati forti come oggi, e il regime non è mai stato così debole”.

I sostenitori le hanno risposto con il grido “Liberta’!”. La Machado, dichiarata “non eleggibile” dal governo, non ha potuto candidarsi alle elezioni del 28 luglio. E’ stata sostituita all’ultimo momento da Edmundo Gonzalez Urrutia(in foto, sopra)che non ha partecipato alla manifestazione indetta in un quartiere esclusivo dell’est della capitale, circondato da un discreto dispiegamento di polizia.

Il fantasma dell’ondata di repressione del 2017, che ha causato un centinaio di morti, già sotto la presidenza di Nicolas Maduro, e la mobilitazione dell’apparato di sicurezza dopo le elezioni causano chiari timori fra i manifestanti. L’autorità elettorale ha confermato la rielezione di Maduro( troverete il mio precedente articolo al riguardo) per un terzo mandato fino al 2031, con il 52% dei voti contro Edmundo Gonzalez Urrutia (43%), senza fornire i risultati dettagliati dello spoglio.

Secondo il conteggio dell’opposizione, Gonzalez Urrutia ha ricevuto il 67% dei voti. Il capo della diplomazia americana Antony Blinken ha espresso la sua “preoccupazione” per la sicurezza della signora Machado e del signor Gonzalez Urrutia e ha riconosciuto la vittoria dell’opposizione, sostenendo che ci sono “prove indiscutibili”. Sulla scia di questa dichiarazione, cinque paesi dell’America Latina hanno riconosciuto l’elezione dell’oppositore di Maduro. 

Il Sud America è sempre stato teatro di dittature “democratiche”, o governi corrotti e inetti.

Maduro non è il solo a godere della meritata fame latinoamericana su corruzione e dittatura.

Prendiamo ad esempio il Brasile, con il presidente(rieletto) Lula(in foto), pre e post-Bolsonaro.

La prima condanna arrivò nel luglio 2017. Luiz Inácio Lula da Silva, già presidente del Brasile dal 2003 al 2011 che in quel momento pensava alla ricandidatura per l’anno successivo, fu condannato in primo grado nove anni e mezzo di prigione per corruzione e all’interdizione dai pubblici uffici per ben 19 anni.

Si trattava del primo dei cinque processi che la procura di Curitiba, capitale dello Stato di Paranà, aveva aperto nei confronti dell’ex presidente. «Lava-Jato», autolavaggio, così era stata rinominata l’inchiesta. Lula era accusato di aver preso tangenti da Petrobras, la potente compagnia petrolifera statale, per favorire l’azienda nell’assegnazione di ricchi contratti. Con lui furono coinvolti altri politici di spicco del Paese, a partire dall’allora presidente Dilma Roussef, che gli era succeduta nel 2011 e che fu costretta alle dimissioni per gli echi dello scandalo. Lula fin da subito respinse le accuse e parlò di «processo politico», ma i magistrati confermarono pochi mesi dopo la condanna anche in appello. Per l’uomo che aveva guidato il Paese tra il 2003 e il 2011 si aprirono le porte del carcere.

Un anno più tardi, nel febbraio del 2019, ecco la seconda sentenza. I magistrati impegnati nel secondo processo sostenevano che Lula fosse stato corrotto da due compagnie di costruzioni. Non con contanti, ma con lavori di restauro da 200 milioni di euro in una proprietà di campagna. Lula giurò che quella casa non era sua ma di un suo amico, i magistrati risposero che l’ex presidente «senza alcun dubbio» sapeva delle tangenti. La condanna, questa volta, fu a 12 anni e 11 mesi di carcere, poi diventati 17 con la sentenza d’appello pronunciata nove mesi dopo.

Ma nel frattempo, dopo 580 giorni di carcere, il 9 novembre 2019 Lula era stato liberato grazie a una sentenza delle Corte suprema, che aveva stabilito un principio: nessun cittadino può essere incarcerato dopo il secondo grado, quando ancora non c’è una sentenza definitiva. Uscito di cella, l’ex presidente aveva ribadito la sua innocenza. Anche perché l’estate di quello stesso anno, il sito The Intercept, fondato dal premio Pulitzer Glenn Greenwald, aveva aperto le prime falle nelle ricostruzioni giudiziarie.

Il sito aveva pubblicato una lunga inchiesta che mostrava come i processi contro Lula fossero stati pilotati per motivi politici, in modo di impedirgli di ricandidarsi nel 2018 alle elezioni poi vinte da Jair Bolsonaro (quando fu condannato, Lula era in testa nei sondaggi). Del resto il giudice federale del Paranà, Sergio Moro, era poi diventato il ministro della Giustizia proprio di Bolsonaro. E infatti, nel marzo del 2021, la Corte suprema brasiliana annullò le sentenze per «incompetenza territoriale e materiale» della corte di Curitiba. Poi fu riconosciuta anche la «parzialità» di Moro e si scoprì che procuratori e giudici dei processi avevano fabbricato prove false e le avevano rilanciate sulla stampa per darsi credito presso l’opinione pubblica.

Ed infine, lo scorso aprile, il comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha dichiarato che le due condanne, oltre a diversi vizi di forma, arrivarono alla fine di processi che avevano violato i più elementari diritti a un processo imparziale e alla privacy, oltre che i diritti politici. La commissione Onu ha poi aggiunto che l’annullamento deciso dalla suprema Corte, arrivato a quattro anni dalla prima sentenza, non è stato comunque sufficiente a riparare i danni subiti da Lula, che nel frattempo ha perso l’occasione di ricandidarsi alla guida del Paese.

Ma anche in Europa, e in Italia, per par condicio(!), le cose non sono differenti, con leggi fatte ad personam ed interessi privati che sovrastano il bene del popolo. Cambiano i musicanti, come si suol dire, ma la musica è sempre la stessa. Persino il gender cambia, ma le ombre oscure si stagliano su Montecitorio. Giustizia e legalità non vanno di pari passo, e il mondo è veramente “paese”.

Sic et simpliciter.

(Fonte: AGI, Corriere della Sera)

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