La redistribuzione della ricchezza è di sicuro un argomento complicato e ampiamente dibattuto. Ciò perché dalla fine degli anni 70 del secolo scorso, col successo della cultura neoliberale, è stato attinto un significativo livello di disuguaglianza tra le classi sociali.
Diversi gli approcci sul tema della redistribuzione: dalle diverse forme di tassazione progressiva alle diverse tipologie e modalità di attuazione del welfare(stato sociale) state. Impossibile ignorare gli effetti che ogni intervento può indurre sulla crescita economica in termini di incentivi e disincentivi.
La nostra Costituzione attribuisce alla Repubblica – e quindi alle istituzioni pubbliche, il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”(Art. 3 Cost.).
Quindi è nello stessa natura della nostra Repubblica il compito di redistribuire la ricchezza prodotta, attingendo da tutti le risorse per “concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”. Al fine di non cadere in errori di interpretazione è chiarito anche che “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Per cui all’aumentare delle disponibilità il contributo fiscale deve aumentare in modo più che proporzionale.
Se si dà per scontata la necessità di produrre ricchezza sufficiente ad assicurare un livello di benessere diffuso e accettabile per tutti, non è possibile ignorare gli effetti incentivanti e disincentivanti dell’attività pubblica sull’iniziativa e sull’impegno dei singoli individui.
E’ fuor di dubbio.
se alcuni sostengono che una redistribuzione eccessiva possa ridurre gli incentivi al lavoro e all’imprenditorialità, frenando in questo modo la crescita, è innegabile che una redistribuzione efficiente stimolerebbe la domanda aggregata e incrementerebbe anche il benessere prospettico, aumentando la disponibilità per tutti di istruzione e sanità di buona qualità grazie un adeguato impegno economico in investimenti e spese di funzionamento atte a favorire la crescita a lungo termine. Investire educare sono le chiavi del successo.
Gli effetti sugli incentivi dipendono molto dalle modalità di redistribuzione. Sistemi di welfare ben progettati possono incoraggiare il lavoro e l’aggiornamento professionale, mentre altri potrebbero creare “trappole della povertà” (ossia quei meccanismi per cui alle persone sostenute dai sussidi pubblici non è conveniente accedere al lavoro, per via di salari poveri e a fronte di un impegno rilevante in carenza di diritti). Sono contraddizioni che però esistono.
Così come in Fisica e in Natura, l’equilibrio corretto tra pressione fiscale e welfare è difficile da trovare e variabile tanto nei luoghi quanto nel tempo.
Se si cerca una politica economica che persegua efficacemente un’equa accessibilità al benessere, mantenendosi incentivante per una crescita sostenuta e sostenibile, bisogna tener presente il rapporto tra le pensioni e la raccolta delle risorse necessarie per garantirle, dello stato attuale di tale rapporto e dei suoi possibili sviluppi nel tempo.
L’invecchiamento generazionale dovuto sia all’aumento dell’aspettativa di vita, sia al drastico decremento della natalità, mette in discussione la sostenibilità delle pensioni, aumentando le unità dei percettori. Non solo: la reazione spontanea è correre ai ripari nel timore di un collasso effettivo del sistema pensionistico. L’attuale tendenza al soddisfacimento dei bisogni attraverso il ricorso al mercato è dominante e spinge verso l’austerità nella spesa pubblica, alla riduzione delle imposte (realizzata essenzialmente per le fasce di reddito più alte – con la conseguente riduzione della curva di progressività del sistema tributario).
L’ austerità ha condizionato inevitabilmente il sistema previdenziale: negli ultimi anni(da poco prima dell’inizio del presente millennio) questo è stato modificato, riducendo la spesa per le pensioni sia decurtando l’ammontare degli assegni pensionistici, sia ritardando con diversi meccanismi( vedi quota 100 e contributi vari) l’accesso alla pensione.
L’invecchiamento della popolazione è stato maldestramente : se quest’ultimo ha cambiato il rapporto numerico tra popolazione attiva e pensionati, la produttività di ogni operatore attivo è oggi estremamente superiore a quella di un tempo e le innovazioni tecnologiche tendono ad incrementare in modo esponenziale tale tendenza.
Se quanto detto è vero – e ammettiamolo, lo è – bisogna prendere in considerazione uno scenario affatto diverso dove la spesa previdenziale non sia finanziata unicamente da contributi previdenziali ma totalmente o parzialmente dalla fiscalità generale.
Quale effetto potrebbe avere sul sistema economico nel suo complesso?
Una riforma in tale direzione(audace), che portasse all’eliminazione del pagamento dei contributi sia per le aziende sia per i lavoratori, potrebbe ridurre il costo del lavoro per le aziende, stimolando l’occupazione e potrebbe aumentare il reddito netto dei lavoratori attivi e dei pensionati, realizzando una copertura pensionistica più universale, includendo anche chi ha avuto carriere lavorative discontinue o ingaggi non standard e ciò dovrebbe sostenere la crescita della domanda aggregata interna in termini di beni e servizi.
Una riforma “impattante” sulla finanza pubblica: sarebbe necessaria una notevole ristrutturazione del sistema fiscale per compensare la perdita di entrate dai contribuenti e quindi significherebbe un aumento delle imposte in altri settori, o all’introduzione necessaria di altre nuove forme di tassazione.
Bisogna prendere considerazione che la stabilità degli assegni pensionistici odierni è essenzialmente nominale ma esposta di fatto all’erosione inflattiva, e tenere presente gli effetti delle crisi economiche in termini di riduzione degli occupati e quindi di riduzione del pagamento di contributi e di aumento delle uscite per ammortizzatori sociali.
Finanziare le pensioni con le imposte svelerebbe la rigidità delle politiche di bilancio indotta dalle pensioni, quando oggi il peso della spesa pensionistica è insito nella contabilità previdenziale apparentemente separata dal bilancio dello Stato. Ma tale separazione è di fatto illusoria, visto che ogni anno lo Stato Italiano ripiana il bilancio INPS col trasferimento di un “assegno di integrazione” che per il 2023 ( ad esempio) ammonterà a circa 75 miliardi di euro a fronte di una spesa pensionistica complessiva per l’anno di circa 350 miliardi di euro. Il rapporto numerico è palese.
I modelli di risparmio e consumo nella società sarebbero quindi influenzati, per cui diventerebbe prioritario monitorare attentamente l’impatto sull’inflazione e sulla crescita economica.
La vexata quaestio sollevata sull’equità inter-generazionale potrebbe invece non presentarsi da quello che sarebbe un cambiamento della modalità di finanziamento della spesa pensionistica.
Si andrebbero a sostituire de facto i contributi previdenziali con imposte da pagare negli stessi esercizi di competenza.
Una trasformazione completa del finanziamento della spesa pensionistica diverrebbe un cambiamento universale rispetto ai sistemi previdenziali tradizionali, senza precedenti su larga scala. Alcuni paesi hanno già sperimentato riforme parziali in tal senso: Danimarca e Nuova Zelanda, hanno sistemi vicini a questo modello, con pensioni di base finanziate dalle tasse; l’Australia ha un sistema misto con una pensione di base finanziata dalle tasse e un sistema di contribuzione obbligatoria in aggiunta.
La fiscalizzazione del sistema previdenziale comporterebbe conseguenze rilevanti, in quanto sarebbe necessaria una base fiscale più ampia e concretamente stabile al fine di garantire la sostenibilità del sistema. Non sarebbe accettabile alcuna percentuale evasione fiscale come quella (grave) in Italia.
Essenziale far pagare le imposte adeguate ai percettori di redditi più alti, che negli ultimi decenni hanno visto ridurre drasticamente le imposte a proprio carico mentre i percettori di redditi bassi e medi hanno continuato a subire il peso delle imposte indirette come l’iva sui beni di consumo e le accise sui carburanti, in un quadro generalizzato di riduzione sia della disponibilità sia della qualità dei servizi pubblici. E’ palese la contraddizione che viene a generarsi.
Nella fase di transizione al nuovo sistema comunque sarebbe fondamentale una modalità realistica di gestire le attuali aspettative ed i diritti acquisiti.
Questo primo contributo ha certamente una forte veste provocatoria, che tuttavia si auspica feconda. Vuole proporre una considerevole summa di domande e soluzioni ipotetiche. Però si ritiene utile sollecitare una riflessione ulteriore rispetto al pensiero generale che ad oggi sembra aver trovato nella riduzione dei servizi l’unica soluzione per curare i malatissimi bilanci pubblici, senza porre il dovuto interesse allo stato attuale della nostra società in cui lo stress della disuguaglianza ha già da tempo raggiunto il livello della sofferenza diffusa.
Una riforma di questo genere potrebbe essere un investimento nel futuro dell’Italia, per i suoi benefici per l’occupazione, la crescita economica e la conseguente sostenibilità a lungo termine. Sarebbe utile che si aprisse un dibattito.
L’Huffpost ha posto domande cercando risposte fattibili, ma che incontrano ostacoli spesso insormontabili, come l’inefficienza ed inerzia dei partiti, lo scontro di interessi tra classi sociali, l’impossibilità finanziaria di spostare risorse da un settore ad un altro, e non ultima, l’incognita rappresentata da eventi futuri non prevedibili, ma con un impatto cruciale, come il Covid, o guerre che possono portare ad un difficoltà di reperimento di materie di base o fonti energetiche, come per l’Ucraina.
(Fonte: HuffPost Italy)