Commissioni, protocolli, tavoli tecnici, linee guida, commissari, decreti, circolari. È immenso l’elenco dei provvedimenti per contrastare il caporalato e lo sfruttamento dei lavoratori. Ma risultati piccoli piccoli, spesso inutili. «Non servono nuove norme, non serve inasprire le pene. Basterebbe applicare quelle che ci sono e soprattutto fare prevenzione, partendo dall’eliminazione dei ghetti» riflette seriamente il procuratore di Foggia, Ludovico Vaccaro, tra i magistrati più impegnati nella lotta allo sfruttamento. L’ultimo provvedimento del governo riguarda proprio i ghetti, anzi i cosiddetti “insediamenti informali”. Ed è la nomina del prefetto di Latina, Maurizio Falco a commissario per il loro “superamento”.
Lo prevedeva il decreto legge 19 del 2 marzo 2024, e doveva essere nominato entro 30 giorni ma è arrivato con più di un mese di ritardo. «Sono necessari maggiori controlli da parte di ispettorato del lavoro, Inps, Inail e forze dell’ordine, ma per imprimere un’efficacia diversa è necessario un coordinamento delle forze in campo. E questa sarà una mia priorità» ha detto ieri in un’intervista a Il Messaggero. Il suo compito è soprattutto di riuscire a spendere i 200 milioni che il Pnrr ha destinato ai Comuni dove esistono questi insediamenti, e che ancora non sono stati spesi. Neanche un euro. Ma non è il primo commissario. Col “decreto Sud” 91 del 20 giugno 2017 vennero nominati ben tre commissari, per le aree di Manfredonia, San Ferdinando e Castel Volturno, quelle con alcuni dei ghetti più grandi e indegni.
Come ricorda uno di loro, Iolanda Rolli, poi prefetto di Macerata e Reggio Emilia, «dovevamo individuare le possibili soluzioni per superare situazioni di vulnerabilità in zone caratterizzate dalla massiva concentrazione di cittadini stranieri. In particolare realizzare un piano di interventi per il risanamento delle aree interessate, curando il raccordo tra gli uffici periferici delle amministrazioni statali, in collaborazione con le regioni e i comuni».
Tutto questo, ricorda, «senza nulla. Non avevamo personale, non avevamo stanze, non avevamo fondi. Ma abbiamo fatto un lavoro che è stato riconosciuto». Ma sono durati solo un anno. Con l’arrivo del governo gialloverde sono stati eliminati e commissari sono diventati i prefetti di Caserta, Foggia e Reggio Calabria. Da sei anni ogni prefetto di questi tre territori è anche commissario ma risultati non se ne vedono. Ma facciamo un passo indietro. Nel 2014 col decreto legge 91, viene prevista la Rete del lavoro agricolo di qualità, istituita presso l’Inps. Si volevano selezionare le imprese agricole più virtuose. Di questa “cabina di regia” non faceva parte il Viminale.
Due anni dopo, con la “legge anti-caporalato”, la 199 del 29 ottobre 2016, viene ampliata la composizione e vi entra il ministero dell’Interno e vengono create le sezioni territoriali/provinciali. Attualmente sono 48 su 107 tra province e città metropolitane, in tutte le regioni tranne Veneto, Friuli Venezia Giulia, Valle d’Aosta, Umbria, Abruzzo e Molise, mentre le aziende agricole iscritte alla Rete sono al 19 giugno 6.521su oltre 120mila, decisamente poche. Ma prima della legge 199, il 27 maggio sempre del 2016, i ministri dell’Interno, Lavoro e Agricoltura, firmano un “Protocollo contro il caporalato e lo sfruttamento lavorativo in agricoltura”.
Firmano anche i sindacati, le organizzazioni degli imprenditori, le regioni più coinvolte, Croce rossa, Caritas e Libera. Prevede la stipula di convenzioni per i trasporti dei braccianti, l’istituzione di presidi sanitari mobili, la destinazione di immobili confiscati per centri di servizio e assistenza, progetti pilota per l’utilizzo di beni demaniali per l’accoglienza degli stagionali, attivazione di sportelli informativi, corsi di italiano, e tante altre iniziative, rimaste purtroppo sulla carta. Per questo poi arrivano i tre commissari, ma per troppo poco tempo. «Troviamo un vuoto – ricorda ancora Rolli -. Giro tra ministero e Inps. Facciamo riunioni. Vado nei ghetti. Le sezioni non erano state fatte. A marzo apro a Foggia la prima e ora in Puglia esistono in tutte le province. Avevamo individuato delle strutture di accoglienza sia per stanziali che per stagionali».
Poi più nulla o quasi. Ma saltano fuori ancora protocolli. Il 14 luglio 2021 se ne firma un altro, sempre tra gli stessi ministeri di cinque anni prima, oltre a sindacati e Anci. Stesse finalità, ma per la sua attuazione viene costituita una commissione. A presiederla è chiamato l’ex ministro dell’Interno, Roberto Maroni, che muore dopo poco più di un anno. Cambia il governo, non viene nominato un nuovo presidente e la commissione non si riunisce mai. Analogo destino delle “Linee-Guida nazionali in materia di identificazione, protezione e assistenza alle vittime di sfruttamento lavorativo in agricoltura”, approvate dalla Conferenza unificata Stato/Regioni il 7 ottobre 2021. Prevede, tra l’altro, che entro sei mesi ogni regione predisponga un proprio piano. Nessuna lo ha fatto.
Intanto il tema delle vittime è ben noto da tempo. Il 4 ottobre 2007 l’allora ministro dell’Interno, Giuliano Amato invia ai questori una circolare invitandoli «a valutare la possibilità di concedere un permesso di soggiorno per protezione sociale, anche nei confronti di quegli immigrati verso i quali saranno accertate situazioni di violenza o di grave sfruttamento sul luogo di lavoro». Proprio quello di cui si sta parlando in questi giorni, dopo la tragica morte di Satnam Singh: 17 anni dopo.
“Lavorare è un diritto. Nobilita l’uomo, non dovrebbe invece degradarlo al rango di un mero macchinario o una bestia da soma da poter sfruttare illecitamente per un maggiore ritorno economico. E’ ingiusto. E’ anacronistico, soprattutto alla luce di una data così “futuristica” come il 2024, dove tutti, anni prima, ci saremmo aspettati più equità e dignità.”(Nicola Gallo, collaboratore di Redazione).