Lo scontro tra Giorgia Meloni e Stellantis ( quindi John Elkann)è l’ennesima prova di come sia il rapporto tra politica e grandi imprese nel nostro Paese.
La presidente del Consiglio rinfaccia alla più celebre famiglia imprenditoriale del Paese di avere privato l’Italia di una delle sue aziende simbolo dell’export di Made in Italy.
La questione centrale non può risolversi senza complicazioni: l’Italia sta perdendo, una alla volta, le sue grandi imprese private. Fiat era ed è ancora oggi la più grande, poi diventata Fca Italy, poi ribattezzata ancora con Stellantis Europe, è al quinto posto nella classifica dei fatturati 2022 secondo l’ultima edizione di “Le Principali società italiane” da un’indagine di Mediobanca.
Davanti a sé Stellantis ha solo imprese che hanno lo Stato come azionista di riferimento (Eni, Enel, il Gestore dei mercati elettrici) e poi il gruppo dell’energia a controllo francese Edison.
L’ex Fiat resta la maggiore impresa industriale privata d’Italia, anche se oggi è la divisione italiana di un gruppo multinazionale che ha la mente tra Parigi e Detroit e il suo contributo allo sviluppo del Paese si è particolarmente ridimensionato. Eppure, non riesce ad avere un rapporto normale con il governo Meloni.
Il problema non è solamente Stellantis. Da anni i politici italiani faticano a dialogare e a capirsi con le grandi imprese: non con le loro associazioni, ma con le singole aziende, cioè con i CEO e i grandi azionisti.
Ad esempio, è scontro aperto con i Mittal per l’ex Ilva, la più grande acciaieria d’Europa che non è in grado nemmeno di pagare le bollette del gas per la produzione; è sul filo della tensione con Bolloré e Vivendi, azionista di controllo di Tim, società privatizzata male e fortemente indebolita; è finita male con gli arabi di Etihad, l’ultimo grande socio internazionale di Alitalia prima della bancarotta definitiva (e ora l’ex compagnia di bandiera spera che Bruxelles non impedisca il suo passaggio a Lufthansa, più volte rimandato per questo o quell’altro motivo).
Dietro il progressivo depauperamento industriale del Paese ci sono fattori ben noti, dalla burocrazia ai costi dell’energia( senza indipendenza energetica si è costretti ad altre fonti), passando per le tasse di vario tipo e la mancanza di personale qualificato. Ma c’è anche il problema dell’incapacità di un dialogo politica-imprese e della mancanza decennale di una seria politica industriale volta all’implementazione produttiva e lavorativa.
Lo scontro tra Giorgia Meloni e gli eredi di Gianni Agnelli conquista facilmente i titoli dei giornali, mentre ci sono questioni probabilmente meno coinvolgenti ma sicuramente più cruciali che non riescono a farsi spazio nel dibattito politico: per quale ragione l’Italia sembra diventata così inospitale per soddisfare le esigenze produttive delle grandi imprese? Perché è diventata così poco interessante agli occhi degli imprenditori di successo( i “tycoon”) che vogliono avviare un’attività in Europa? Perché l’Italia fatica a trattenere sul suo territorio le sue aziende migliori? Il magnate di Tesla e “X” e Spacex, Elon Musk, si è presentato alla convention di FdI Atreju, ma la fabbrica europea di Tesla l’ha costruita a Berlino. Ist Gut!(è bene), tradotto dal tedesco).
La Francia stravolta di Macron ha già completato la prima delle quattro grandi gigafactory messe in cantiere per produrre batterie per auto elettriche con basso impatto ecologico. Stefano Buono, che è un imprenditore italiano, ha fondato una delle start-up dal maggior potenziale in un settore su cui c’è molta aspettativa, quello dell’energia nucleare con centrali di piccole dimensioni e con tecnologie più pulite: si chiama “Newcleo”, fa ricerca a Torino, ma ha portato la sede a Londra e con il prossimo aumento di capitale potrebbe accogliere come azionista proprio il governo francese. Nella storia del futuro industriale dell’Europa sembrano esserci tutti, ma non l’Italia, da anni troppo coinvolta da stupide polemiche per accorgersi che altrove politica e impresa hanno imparato sostenersi vicendevolmente raggiungendo target che qui non sono nemmeno proponibili. Per non parlare della ormai tristemente nota “fuga di cervelli”, o comunque della possibilità rappresentata dall’estero, più “abbordabile” per chi si trova ostacolato qui in Italia da baronie feudali accademiche o raccomandazioni di stato.
No, non ci siamo. L’Italia ha tanto e tanti uomini eccelsi da offrire per il miglioramento della società e per il bene di tutti. Manca una politica che possa vedere aldilà dell’orizzonte degli eventi, mentre invece sembra essere un buco nero che fagocita indiscriminatamente qualunque cosa distruggendo tutto quello che c’è di buono.
Dobbiamo tener presente che la transizione verde è una realtà cui non possiamo fare a meno, nello scenario globale. La minaccia dell’Intelligenza Artificiale contribuisce poi a creare il timore per il futuro lavorativo, laddove il lavoro veniva svolto da 20 operai, ora basta un macchinario.
Il collega Nicola Gallo ha scritto un articolo al riguardo su Ned Ludd, il primo, nella storia, ad essersi letteralmente ribellato al giogo della macchina, sfasciando un telaio meccanico in una fabbrica tessile a fine ‘700 in Inghilterra. Ma non voglio inneggiare alla violenza contro le macchine: esse sono un ottimo strumento che facilita il lavoro umano, purché non lo sostituiscano completamente, creando disoccupazione e disagio.
Non dimentichiamo che l’Italia ha più di un secolo di realtà industriale, e in un mondo globalizzato, l’industria è necessaria per lo sviluppo della società. Non possiamo vivere un’autarchia, questo è certo. Quello che serve è un’ottica polivalente che metta al centro il bene comune senza sacrificare le possibilità e le occasioni che vengono invece prese al volo dagli stranieri che hanno “occhio” per gli affari.
L’industria è necessaria, genera lavoro benessere, progresso. Il futuro è già qui, nasce dal presente ed è inarrestabile, come una freccia scoccata. Basta fare centro, ecco.
Start-up, ritorno di cervelli, investimenti e sovvenzioni.