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La società di alta moda Alviero Martini è commissariata per sfruttamento. Un lavoratore cinese a cottimo: «Pagato 1.25 euro a tomaia»

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Quella di Alviero Martini è una Società per Azioni molto rinomata,ma l’azienda di alta moda ora è commissariata.

A disporre l’amministrazione giudiziaria è stata la Sezione autonoma misure di prevenzione del Tribunale di Milano in un’inchiesta dei Carabinieri del Nucleo Ispettorato del Lavoro e del PM Paolo Storari. L’azienda , specializzata nella realizzazione di borse ed accessori dal tipico design geografico, «ritenuta incapace di prevenire e arginare fenomeni di sfruttamento lavorativo nell’ambito del ciclo produttivo». Sarebbero stati massimizzati i profitti usando «opifici cinesi» e «facendo ricorso a manovalanza in nero e clandestina».

Il commissariamento dell’azienda

Il commissariamento è stato disposto dalla Sezione misure di prevenzione, presieduta dal dott. Fabio Roia, a carico dell’azienda fondata nel ’91 e con sede a Milano, che produce borse e accessori conosciuti per il design con le mappe geografiche disegnate secondo stile colonialista/antico. Stando agli accertamenti, l’impresa non avrebbe «mai effettuato controlli sulla filiera produttiva per appurare le reali condizioni lavorative» e «le capacità tecniche delle aziende appaltatrici tanto da agevolare soggetti raggiunti da corposi elementi probatori in ordine al delitto di caporalato».

La filiera di produzione

È stato accertato che «la maison di moda» avrebbe affidato «mediante contratto di appalto con divieto di sub-appalto senza preventiva autorizzazione, l’intera produzione a società terze, con completa esternalizzazione dei processi produttivi». Ma le aziende appaltatrici avrebbero «solo nominalmente» una «adeguata capacità produttiva e possono competere sul mercato solo esternalizzando le commesse ad opifici cinesi, i quali riescono ad abbattere a loro volta i costi grazie all’impiego di manodopera irregolare e clandestina in condizioni di sfruttamento».

«Lavoratori pagati a 1.25 euro a tomaia»

«Vengo pagato 1,25 euro a tomaia (la parte superiore di una scarpa, ndr) durante la settimana dormo sopra la ditta al piano primo presso locali adibiti a dormitorio (…) in una giornata lavorativa produco circa 20 paia di scarpe (…) percepisco un bonifico mensile di circa 600 euro che ci paga il titolare che produce tomaie relative all’azienda Alviero Martini». È solo una delle testimonianze dei diversi lavoratori cinesi impiegati negli opifici per produrre per conto dell’azienda di alta moda, sottoposta oggi ad amministrazione giudiziaria dai giudici Roia-Rispoli-Cucciniello, nelle indagini riguardanti lo sfruttamento del lavoro del PM di Milano Paolo Storari. I lavoratori, secondo gli atti, percepivano paghe ben al di sotto della soglia di povertà, ossia poco più di 6 euro all’ora, e stavano in luoghi con «micro camere, completamente abusive», con «chiazze di muffa» e con «impianti elettrici di fortuna». Un lavoro massacrante, manuale, ripetitivo, accurato e d’arte, pagato una miseria.

La testimonianza di un operaio cinese sfruttato

Un altro operaio cinese ha messo a verbale: «Percepisco 50 centesimi ogni fibbia rifinita (…) non sono mai stato visitato dal medico dell’azienda». Durante la settimana dormivano nei dormitori «abusivi» degli opifici e solo nel fine settimana tornavano nelle loro «abitazioni». Stando alle indagini, per un prodotto “griffato” venduto sul mercato a 350 euro l’opificio cinese si sarebbe fatto pagare appena 20 euro. Seguendo la catena dei subappalti della produzione, l’azienda secondo gli investigatori, avrebbe pagato il prodotto finale 50 euro. Venduto, poi, a 350 euro. Un bel ricarico.

La nota di Alviero Martini

«Tutti i rapporti di fornitura sono disciplinati da un preciso codice etico a tutela del lavoro e dei lavoratori al cui rispetto ogni fornitore è vincolato». Lo precisa la Alviero Martini. La società precisa anche di «essersi messa tempestivamente a disposizione delle autorità, non essendo peraltro indagati né la società né i propri rappresentati, al fine di garantire e implementare da parte di tutti i suoi fornitori, il rispetto delle norme in materia di tutela del lavoro». «Laddove emergessero attività illecite effettuate da soggetti terzi, introdotte a insaputa della società nella filiera produttiva, assolutamente contrari ai valori aziendali, si riserva di intervenire nei modi e nelle sedi più opportune, al fine di tutelare i lavoratori in primis e l’azienda stessa» conclude la nota.

E’ un caso, questo, che seguiremo nei prossimi tempi. Da Napoletano posso dirvi che anni fa, facendo visita a un amico di un parente a Somma Vesuviana, inevitabilmente mi capitò( data la zona in questione) di incappare in una delle tante fabbrichette(“opificio” è il termine esatto) con manovalanza cinse. Spiai perché sono sempre stato curioso di natura, e vidi cose assurde. Mi sembravano tanti schiavi gomito a gomito con l’altro/a intenti irrefrenabilmente a cucire e lavorare prodotti tessili d’abbigliamento. C’erano neonati e bambini in questa fabbrichetta, nessun sistema di sicurezza antincendio, nessuno in pausa, col rumore assordante dei macchinari in funzione, e un odore nauseabondo di prodotti in lavorazione. Questa è l’Italia che sfrutta i cinesi al pari dell’America ferroviaria di fine ottocento. Siamo ancora a certi livelli di sfruttamento, uguali o almeno simili a quelli del terzo mondo o dell’est asiatico, come in India, dove vige lo sfruttamento minorile persino al di sotto della pubertà.

Che Martini facesse ricorso a manodopera cinese, lo sospettò curiosamente un mio amico, scherzandoci su, regalando proprio una delle costose borse con sopra disegnate le mappe e mappine.

Ricordo ancora la scena, con l’amico che fa “costa ‘nu burdell ma secondo me l’hanno fatta ‘e cinesi !”.

(Fonte:ilMattino)

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