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Una maestrina milanese antifascista in prigione a Budapest e nessuno ne parla.

Da quasi un anno Ilaria Salis grida nel suo silenzio. Rinchiusa nel carcere di massima sicurezza di Budapest, questa 39enne italiana , milanese, di professione maestra alle elementari e di passione antifascista, denuncia condizioni detentive disumane. Topi e scarafaggi in cella, cibo scarso, meno di 3 metri e mezzo di spazio vitale a disposizione, l’umiliazione di essere trascinata alle udienze «legata e tenuta al guinzaglio da un agente della scorta».

Ilaria Salis è accusata di aver aggredito due neonazisti durante il cosiddetto “Giorno dell’Onore”, una commemorazione (non autorizzata ma tollerata dal governo sovranista di Orban) che ogni 11 febbraio riunisce a Budapest centinaia di adoratori di Hitler. Pensate un po’ che nazione liberalmente europea.

La accusano anche di essere legata a Hammerbande, il gruppo tedesco che si propone di «assaltare i militanti fascisti». E di cui però lei, con amici e famigliari, non ha mai fatto riferimento. Il 29 gennaio si apre il processo, rischia fino a 16 anni.Lei si dichiara innocente.

Questa però non è solo la storia di una durissima carcerazione preventiva e di un processo da celebrarsi in un sistema giudiziario, quello ungherese, criticato fortemente dall’Unione europea e da Amnesty International, oggetto di riforme che nel tempo vi hanno introdotto leggi liberticide. È anche un caso politico. Sulla scrivania della premier Giorgia Meloni, del presidente del Senato Ignazio La Russa, dei ministri degli Esteri e della Giustizia Antonio Tajani e Carlo Nordio, infatti, c’è la lettera di un padre giustamente disperato.

Roberto Salis, 64 anni, ingegnere, ha scritto alle massime cariche italiane perché intervengano seriamente e celermente. Non per sottrarre la figlia al tribunale di Budapest, ma per tutelarne i diritti («cosa hanno fatto gli organi consolari per evitare la violazione dei diritti civili subiti da Ilaria?», chiede nella lettera-appello), per proteggerne l’integrità («quali rimostranze ufficiali sono state presentate alle autorità ungheresi?»), per pretendere proporzionalità nel capo di imputazione («16 anni per due episodi di lesioni, guariti in 5 e 8 giorni: quali azioni diplomatiche sono state fatte per riportare le accuse all’effettiva gravità dei fatti?»). Per sperare, infine, nel trasferimento ai domiciliari in Italia.

Gli elementi del “caso politico” e diplomatico ci sono tutti: una cittadina italiana che denuncia soprusi in un carcere ungherese, un padre che si appella al governo per la figlia «che comunque è dalla parte giusta della Storia, mentre quei nazisti sono dalla parte sbagliata», la solida amicizia tra Giorgia Meloni e il premier Viktor Orban, teorico della “democrazia illiberale”. E tuttavia, anche quelle di Roberto Salis, finora, sono grida nel silenzio.

L’11 febbraio 2023 Ilaria Salis è a Budapest alla contro-manifestazione organizzata per opporsi al raduno neonazista. Ci sono tafferugli, due militanti dell’estrema destra vengono assaliti sotto l’occhio delle telecamere di sorveglianza. I pestaggi durano trenta secondi, gli aggressori hanno il volto coperto. L’italiana viene fermata diverse ore dopo assieme a una coppia di tedeschi. Nel taxi su cui stanno viaggiando la polizia trova un bastone. Ilaria Salis dichiara di non aver commesso alcun che. I due aggrediti hanno riportato ferite lievi ma per i P.M. ungheresi hanno subito «atti potenzialmente idonei a provocarne la morte», con il rischio di una pena detentiva di 16 anni.

«Il criterio di proporzionalità qui è completamente infranto», spiegano gli avvocati difensori, Eugenio Losco e Mauro Straini. «In Italia per lesioni si procede solo dietro querela e con pena massima di 4 anni. A Ilaria è stato proposto un patteggiamento di 11 anni (l’ha rifiutato, ovviamente) da scontare in un carcere di alta sicurezza, è quasi il triplo della pena massima applicabile dal codice italiano».

Portata dopo l’arresto nel II penitenziario di Budapest, per sei mesi non le è concesso fare telefonate. Il 2 ottobre riesce a spedire ai genitori una lettera in cui racconta quello che sta vivendo sulla sua pelle. «Mi sono trovata senza carta igienica, sapone e assorbenti (perché sfortunatamente avevo anche il ciclo) fino al 18 febbraio»; «sono stata costretta a indossare abiti sporchi e un paio di stivali con i tacchi a spillo che non erano della mia taglia, ho dovuto partecipare all’udienza di convalida così abbigliata»; «per i primi tre mesi sono stata tormentata dalle punture delle cimici da letto, che mi creavano una reazione allergica»; «oltre alle manette qui ti mettono un cinturone di cuoio con una fibbia a cui legano le manette, anche i piedi sono legati tra loro: due cavigliere chiuse con due lucchetti e unite tra loro da una catena di 25 centimetri. Poi mettono un’ulteriore manetta a un solo polso, a cui è fissato un guinzaglio di cuoio tenuto in mano dall’agente della scorta, si rimane legati così durante tutta l’udienza e l’esame svolto dall’antropologo».

Circostanze in passato documentate dalla Corte Europea dei Diritti dell’uomo e dal Comitato Europeo per la prevenzione della tortura. Motivo per cui, finora, la Corte d’Appello di Milano non ha acconsentito all’estradizione di un altro italiano, Gabriele Marchesi, 23 anni, anch’egli accusato per le aggressioni di Budapest. Il sostituto procuratore generale Cuno Tarfusser e i difensori Losco e Straini si sono opposti anche per violazione del principio di proporzionalità della pena. E Tarfusser ha lasciato intendere di ritenere l’indagine ungherese politicizzata. Come accade spesso nel Paese di Orban, l’amico di Giorgia Meloni.

Voglio appellarmi anch’io. Vi invito tutti.

Anche se quello che Ilaria ha fatto( se venisse provato) è totalmente sbagliato, primo, perché con la violenza non ha fatto altro che abbassarsi allo stesso livello infimo dei neonazi, secondo, perché cosi facendo ha procurato tanta preoccupazione nel padre e in chi la conosce sapendo proprio che l’Ungheria di Orban non è un posto “sicuro” proprio per il rispetto di quei diritti che contraddistinguono l’Italia e che fanno del resto d’Europa un baluardo di libertà, Ilaria merita un processo equo, merita di scontare qui in Italia quello che deve scontare. Meglio qui che lì.

Io soltanto mi domando( come farebbero in molti, vista la faccenda), perdonatemi lo sfogo: ” ma benedetto XXXX, non potevi rimanere in Italia a fare la maestrina?”.

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