Un congedo di paternità obbligatorio (ma retribuito) per i lavoratori dipendenti e facoltativo (ma poco retribuito) per i lavoratori autonomi. Sono queste, in sintesi, le novità entrate in vigore dall’agosto di quest’anno, in attuazione di una direttiva europea per incentivare la conciliazione tra vita familiare e vita lavorativa. Se per le mamme non cambia molto, per i papà si è cercato di introdurre norme volte alla responsabilizzazione e alla condivisione dei pesi che la nascita di un figlio inevitabilmente comporta.
Per i dipendenti l’astensione obbligatoria di dieci giorni si configura come un vero e proprio dovere di astensione dal lavoro. Tanto che, nel caso in cui un dipendente non usufruisca di questo diritto si prevede una sanzione a carico del datore di lavoro (ma non per il dipendente) che, per evitarla, sarà quindi obbligato a sospendere il lavoratore dall’attività. Le norme previgenti prevedevano un congedo di maternità obbligatorio solo per la mamma, mentre per il papà il congedo era facoltativo e poteva avere una durata fino a sei mesi. Il papà poteva avere un congedo di paternità di ulteriori tre mesi se la madre non fruiva del suo periodo. Queste astensioni dal lavoro erano retribuite al 30%, salvo i contratti collettivi non prevedessero condizioni di miglior favore. Ora questo tipo di congedi facoltativi è stato ribilanciato e portato fino ad un massimo di 9 mesi e a questi si è aggiunto il congedo obbligatorio di dieci giorni (retribuito al 100%) per il padre. Da un certo punto di vista è evidente che rendere obbligatoria tale astensione faciliterà in molti casi i padri nei confronti dei datori di lavoro. Dall’altra però è evidente l’approccio di tipo paternalistico del legislatore che si arroga il diritto di decidere quali siano i diritti non negoziabili dei lavoratori, al loro posto.